Immaginate
di star completando la vostra prima maratona. Avete da poco superato la
bandiera che segnala l’ultimo chilometro. Per favorire una composizione mentale
di luogo, considerate che questa bandiera, nel caso dell’ultima maratona di
Roma, era posta non molto prima di una lunga discesa con due curve a gomito in
cui alla peggio rotolare; pochi metri dopo la seconda curva, svolta a sinistra
ed ecco il traguardo, il tanto agognato traguardo dei 42,195 km.
Eccovi
quindi a correre (forse correre è dire troppo, facciamo solo percorrere) gli ultimi metri; è giunto il momento
di concentrarvi ad assaporare l’attimo. Ci vuole una colonna sonora. Quale
sarebbe la vostra? Quale motivo vi risuonerebbe nella testa? Forse la colonna
sonora di “Momenti di gloria” è quello più centrato, ma anche un evergreen
celebrativo come “We are the champions”, una marcia trionfale dell’Aida per
andare sul classico o l’accompagnamento musicale ai trionfi di Rocky [1]per
chi è rimasto affezionato agli anni ’80.
Ebbene,
nel mio caso niente di simile è risuonato nella mia mente. In quegli ultimi metri in cui da Piazza
Venezia si imbocca Viale dei Fori Imperiali con i figuranti vestiti da
centurioni schierati prima del traguardo (terribilmente kitch devo dire), nelle orecchie
risuonava un motivo così glam che viene difficile pensarlo associato a qualcosa
di così intrinsecamente faticoso e, diciamolo, doloroso (ma anche estatico)
come gli ultimi metri di una maratona; eppure quel momento topico era, nella
mente e forse addirittura con il labiale, il momento per intonare il refrain di “Changes” di David Bowie, quel
Ch-ch-ch-chaaaanges protagonista di innumerevoli spot e colonne sonore di film
hollywoodiani e non (a ogni buon conto, intendo il minuto 00:52 di http://www.youtube.com/watch?v=pl3vxEudif8).
Perché
“Changes”? Perché la storia della prima maratona è, sicuramente nel mio e
probabilmente non solo nel mio caso, una grande storia di cambiamento. E
tagliando quel traguardo, quel cambiamento ha trovato il suo compimento
perfetto. Il fatto che stessi tagliando quel traguardo confermava
definitivamente dentro di me una convinzione che si era venuta a maturare da
quando, circa due anni prima, avevo deciso di cominciare a correre, e di farlo
sul serio, per quanto sul serio possa correre un padre di tre figli che non
vuole latitare troppo dai suoi doveri familiari nonostante un lavoro
discretamente assorbente. La convinzione in questione era che qualsiasi cosa è
impossibile solo fino al momento in cui non ci si decida a renderla possibile.
Ecco, detta così è una banalità bella e buona, una frase da corsi motivazionali
o un sotto titolo di certi libri tipicamente anglosassoni e letterariamente non
eccelsi per self made man o cose del genere. Ma David Foster Wallace mi ha convinto
del fatto che “nella trincea quotidiana
in cui si svolge l’esistenza degli adulti, i banali luoghi comuni possono
essere questioni di vita o di morte”. E questo banale luogo comune che mi
sono lasciato scappare un paio di righe sopra è in realtà oggi una delle cose
che più vere che so.
Ripercorrendo questi due anni passati dalla prima corsa della mia vita o quasi (a memoria credo di ricordare solo altre due occasioni precedenti in cui ho corso in maniera fine a se stessa per più di 3 minuti) credo di riuscire a focalizzare quali sono stati gli snodi chiave di questa storia di cambiamento volontario (perché a volte il cambiamento te lo impone la vita, non lo si è cercato, ed è un’altra storia). Il primo è, per definizione, il momento in cui si decide di iniziare, in cui si pronunzia un “sì, lo voglio” interiore che trasforma un pio desiderio in una ferma intenzione. A questo proposito devo riprendere un sotto titolo di un libro[2] di livello letterario degno di quelli di cui sopra, imbottito di frasi fatte e che, conoscendo l’autore[3], non sarà originale dello stesso : “nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare”. Perché la tentazione sarà sempre quella di accampare una serie di scuse, anche rispettabili e plausibili, per convincerci che in fondo quel giorno in cui abbiamo deciso di dare inizio al cambiamento non è il giorno ottimale per cominciare. Cosa ci trovate di ottimale in una domenica sera di inizio marzo, ancora fredda e umida, vestito in maniera improbabile, con una moglie che vi guarda tra il pietoso ed il divertito che va bene tutto basta che vi muovete e fate più presto possibile a rientrare per fare il bagnetto ai bimbi? Eppure quella domenica avevo deciso che dovevo cominciare, e non mi sono fatto sopraffare dai rinvii cui uno dopo l’altro avevo dovuto cedere dalla mattina presto – no, quel giorno non si sarebbe mai fatto abbastanza tardi da costringermi ad arrendermi all’idea che anche quel giorno non dovesse essere quello giusto.
E
sempre pensando a quella sera, un episodio mi porta a individuare un altro fattore
critico di successo di questa storia di cambiamento: il metterci la faccia. Va
bene l’impegno interiore, ma di solito siamo molto più indulgenti con noi
stessi di quanto non siamo indifferenti al giudizio altrui, quindi comprometterci verso
l’esterno ci aiuta. Per questo quel salutare il vicino che incrociai al ritorno
da quella prima corsetta (intervallata da tratti al passo) con un “oggi è un
grande giorno, e tu ne sarai testimone; oggi domenica 4 marzo 2012 è il giorno
in cui ho cominciato a correre per mai più smettere” è stato fondamentale; lui
se ne sarà dimenticato, io se sto qui a raccontarlo evidentemente no.
Ma se è vero come è vero che siamo interessati a ciò che gli altri pensano di noi molto più di quello che ci piace far credere[4], il più grande ostacolo quando si affrontano i primi passi di un percorso di cambiamento è la diffidenza di chi ci sta intorno. Perché in un modo o nell’altro il cambiamento quando non spaventa chi lo realizza spaventa comunque chi lo vive di riflesso. E’ in fondo sempre una forma di paura del diverso (chi cambia è necessariamente diverso, perché lo è quantomeno da come era prima), paura del diverso che ci accomuna tutti e che forse altro non sarà che uno degli aspetti dell’istinto di conservazione ma che di sicuro è un fattore deterrente dell’evoluzione. Sorrisi di sufficienza, battutine e perplessità varie accompagnano chi vuole cambiare rotta, e questo nel caso della corsa è anche non immediatamente accettabile se si pensa che tutto sommato si sta intraprendendo un cammino di miglioramento, almeno fisico se non si vuol comprendere l’aspetto mentale, che forse è anche preponderante in verità. E tra le accuse più ricorrenti c'è quella di parlare sempre di corsa, ma anche qui la dinamica può essere che ogni elemento di novità di cui si parla si distingue dal rumore di fondo delle solite chiacchiere ed emerge all’attenzione di chi ascolta, il quale finisce per convincersi che parliamo SOLO di quella cosa in particolare perché in realtà è l’unica che sfugge al filtro taglia rumore.
Ma se è vero come è vero che siamo interessati a ciò che gli altri pensano di noi molto più di quello che ci piace far credere[4], il più grande ostacolo quando si affrontano i primi passi di un percorso di cambiamento è la diffidenza di chi ci sta intorno. Perché in un modo o nell’altro il cambiamento quando non spaventa chi lo realizza spaventa comunque chi lo vive di riflesso. E’ in fondo sempre una forma di paura del diverso (chi cambia è necessariamente diverso, perché lo è quantomeno da come era prima), paura del diverso che ci accomuna tutti e che forse altro non sarà che uno degli aspetti dell’istinto di conservazione ma che di sicuro è un fattore deterrente dell’evoluzione. Sorrisi di sufficienza, battutine e perplessità varie accompagnano chi vuole cambiare rotta, e questo nel caso della corsa è anche non immediatamente accettabile se si pensa che tutto sommato si sta intraprendendo un cammino di miglioramento, almeno fisico se non si vuol comprendere l’aspetto mentale, che forse è anche preponderante in verità. E tra le accuse più ricorrenti c'è quella di parlare sempre di corsa, ma anche qui la dinamica può essere che ogni elemento di novità di cui si parla si distingue dal rumore di fondo delle solite chiacchiere ed emerge all’attenzione di chi ascolta, il quale finisce per convincersi che parliamo SOLO di quella cosa in particolare perché in realtà è l’unica che sfugge al filtro taglia rumore.
Superati
i primi tempi, si arriva a realizzare, una meta raggiunta dopo l’altra, che la
quasi totalità degli ostacoli che ci dividono dagli obiettivi che ci poniamo
non hanno una realtà oggettiva e indipendente da noi ma sono nostre creature, limiti
che ci auto-poniamo ma che, andando appena oltre la superficie delle cose,
scopriamo non avere di per sè alcuna valenza. Cosa ci impedisce di svegliarci
alle 6 del mattino la domenica se non l’idea che ci siamo costruiti da soli che
è “una cosa da pazzi”? E’ una cosa sconsigliabile se si va a letto alle 2 di
notte la sera precedente, ma basta andare a letto alle 22,30, assicurarsi il sabato come
giorno settimanale di sveglia comoda e non lo è più. E come questa tante altre
cose un tempo impensabili o solo impensate diventano quotidianità e tutti gli
ostacoli che ci eravamo costruiti scompaiono nella loro inconsistenza.
Con
queste considerazioni mi sono spiegato come mai Changes fosse venuta fuori da
chissà quale anfratto del mio cervello per accompagnarmi al traguardo della
prima maratona e oltre (sono passate ormai più di 3 settimane e mi sono ritrovato spesso a
canticchiarla). Probabilmente la prossima volta ricorrerò a qualche motivetto
standard tipo quelli citati all’inizio, ormai lo spirito sarà diverso, più
rivolto al superarsi, a darsi e centrare obiettivi sempre più sfidanti.
Perché
ormai tutto è cambiato.
P.S.:
visto che nessun giorno è sbagliato per provare a cambiare, da oggi provo a
tenere un blog
[1]
Intendo il minuto 1:31 di questo: http://www.youtube.com/watch?v=GvQkl7qa6RQ
[2]
“Oltre la rottamazione”, Mondadori, 2013
[3]
Matteo Renzi
[4]
Anche se sempre DFW ci ricorda che “Che
la vostra preoccupazione per ciò che gli altri pensano di voi scompare una
volta che capite quanto di rado pensano a voi.”